Ecce Homo per Friedrich N.- 1988

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Non t’accorgi di come io stia scomparendo: è la fine.

Portami ciliegie e altre infanzie:

lo spirito è ridotto in voluta.

Teatro dimenticato, pezzetti qui e là, impronte, stemmi e sfioramenti di un piacere: trasfusioni comunque, e delle più difficili e improbabili, ad un soggetto solo, che si scambia tra sé e sé. “Apnee, alitazioni, penitenze…” come direbbe Benn, evocando il suo Maestroin quel ritorno all’inconscio dove tutto è mischiato.

Il teatrale e il teatrante insieme si danno in una perfetta solitudine, proprio e solo nel luogo diun teatro monologico, cioè di rappresentazione senza testimoni: arte del dimenticare, dice F., pratica cosmologica , perchè l’incontro erotico col linguaggio è possbile solo da una perfetta solitudine. Ora qui penso al corpo-attore che deve ereditare questi lasciti, spendere in qualche modo questa visibilità, già cenere di un altrui dire e sognare. Penso al corpo che deve abitare questa scena, che si deve abitare, che muove i primi passi sul terreno di questo nuovo regno di cui nulla è noto: deve farsi spazio per la diversità, palue del mondo, foresta per la sosta di tutti i voli. Questo teatro corpo è un “rappresentare nulla” di “spettacolo”:  un arabesco ed esiste solo come unità di confine, in una realtà senza relazioni. Si, Io-corpo esisto solo nel teatro, davvero in forma irrelata, con quanto di assoluto, privato e intimo c’è in me.

Ma il corpo si tocca, come scena materia-corpo “cieco, opaco, inattraversabile”. Lo sguardo di questo io-corpo non va più in là di una piega sulla superficie della materia: là si ferma. All’increspatura, alla scorza. Si può appena immaginare l’interno sprofondato, il “luogo di incognita bellezza”.


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anni '80