Achille Mango “Categoria dell’intervento: Dario Fo, Gruppo Teatro, Linea d’ombra”

in Della ricerca teatrale, ossia del teatro

Il Ponte rivista mensile di politica e letteratura fondata da Piero Calamandrei, La nuova Italia, Firenze anno XXXII nn.7-8 31 luglio-31 agosto 1976

(…) E poiché si parla di spazi etici, si può dire che gli spettacoli a maggior diritto appartengono alla categoria dell’intervento sono quelli del Gruppo Teatro (Compagnia Teatrale Cooperativa guidata dal regista Gianfranco Mazzoni. Frantoio e latte materno -1975- è l’opera prima di Marcello Sambati entrato a far parte della compagnia nel 1973 n.d.r.) e della Linea D’ombra. Spettacolo, in casi del genere, è parola che rende in minima parte l’immagine delle finalità conseguite o conseguibili; bisognerebbe forse dire azione, con tutti i risvolti di stampo politico che il termine nasconde. Soltanto chi ha visto i due ensembles operare all’interno di comunità particolari, come quelle salentine, le lucane, le irpine, comunità escluse non si dice dalla fruizione teatrale ma dalla circolazione di un qualsiasi anelito di cultura, può cominciare a farsi un’idea della potenzialità contenuta in operazioni del genere, quando siano condotte tenendo riguardo anche alle esigenze del cosiddetto consumatore. Il punto di partenza è abbastanza comune, e non ha caso è quel Salento dove si consumano ancora in forme sufficientemente genuine i residui di una cultura che la classe dominante ha inteso soffocare (senza riuscirvi) per poter meglio esercitare il suo potere repressivo e che le modificate condizioni di esistenza, con tutte le valenze di carattere comportamentale che esse implicano, tendono in qualche misura a respingere. E non starò a dire qui della plausibilità o implausibilità del rifiuto, che è talora rifiuto verticale. Anche da parte di studiosi. Il Salento probabilmente, per l’improvvisa nuova notorietà che gli ha assegnato, almeno sotto questo profilo, il lungo intervento di Eugenio Barba e dell’Odin Teatret di Holstebro. La conoscenza, se non certamente il possesso, della cultura salentina e ovviamente di altre zone d’Italia, in modo particolare del meridione, consente al Gruppo Teatro e alla Linea d’ombra due tipi di discorsi molto vicini anche se paralleli, ubbidienti a quelle che sono le linee di tendenza da cui i due gruppi provengono. Il Gruppo Teatro isolando ed esaltando il momento della gestualità e quindi collocando il materiale recuperato o comunque noto in una dimensione dialettica rispetto alla situazione del teatro; la Linea d’Ombra riciclando il documento dentro aree simili, dal punto di vista socioculturale, a quelle da cui esso è stato assunto e contaminando il discorso con gli elementi fondamentali della cultura tradizionale della borghesia. Il primo (Gruppo Teatro) muovendosi sostanzialmente sul piano del linguaggio creativo; l’altro (la Linea d’Ombra) cercando una risposta di tipo più chiaramente politico.
Il modello scelto dal Gruppo Teatro risponde indubbiamente alle esperienze passate di stampo neoavanguardistico e rientra, in qualche modo, in quel tipo di operazione che ho definito drammaturgica, intendendo l’espressione in senso positivo, questa volta. Vuol dire, cioè, che la compagnia ha assunto un certo tipo di materiale popolare finalizzandolo alle esigenze del teatro.

Frantoio e latte materno è, infatti, uno straordinario collage di momenti comportamentali delle genti salentine, al quale si chiede di trasmettere non il carattere specifico, rispondenti ai modi di essere di quelle popolazioni, ma l’essenza teatrale generale, ossia il linguaggio, per renderla rappresentativamente comunicante in senso addirittura universale. La depauperizzazione di alcuni elementi primari della cultura risponde proprio ad una volontà di ricerca in questa direzione: la musica sparisce, con tutti i crismi di gestualità che contiene, per lasciar campo ad un altro tipo di gestualità, direttamente dipendente dai valori di comportamento che i documenti scelti posseggono. Troviamo, così, accanto a certi slanci di poesia che i testi drammatizzati presentano ma che rientrano, per qualche riguardo, nella categoria della creazione, fatti, espressioni, gesti appartenenti in via diretta al modo di essere e di esprimersi di queste società, deprivati naturalmente dei significati esistenziali che essi avevano originariamente e caricati di valori squisitamente teatrali.  Non è un caso che l’esperimento sia stato mostrato, di preferenza, all’interno di spazi teatrali più o meno rispettosi delle regole che a essi si confanno. Non è un caso, però, che qui dentro la macchina non abbia funzionato e il messaggio sia stato recepito proprio nei termini opposti a quelli voluti. Ossia come pura e semplice documentazione di una cultura diversa. Chi assisteva allo spettacolo non sapeva da quale momento culturale esso avesse preso l’avvio.  E anche quando si poteva parlare di esito felice, tutto il senso dell’operazione veniva ad essere sminuito. Il centro del successo gravava pressoché interamente sulla scena di tarantismo e di erotismo rituale che, dal mio punto di vista, è la meno genuina e significativa dell’intera rappresentazione.
Le cose cambiavano radicalmente con il cambiare del pubblico: le esperienze condotte in provincia o addirittura nei piccoli centri hanno trasformato lo spettacolo in un vero e proprio evento, che non soltanto ha reso apprezzabili interamente i valori interni del documento, ma ha spinto i portatori diretti o meno diretti di questa cultura a confrontarsi con essi alla luce di due circostanze di importanza primaria: 1) che quella cultura esiste; 2) che sono cambiate profondamente le modalità di esistenza, in virtù delle quali i valori comportamentali sono stati sostituiti da altri, sovrastrutturali. In tal senso, l’operazione di Frantoio e latte materno conserva la validità di partenza: la teatralità o meglio la dimensione di teatro che l’intelligenza del gruppo aveva intuito con sufficiente autorità, ma l’esperienza ha contribuito a far giustizia di alcuni involontari luoghi comuni, che tendevano a restringere pericolosamente l’operazione negli spazi di una cultura troppo tradizionale, troppo radicata nella morale borghese e trascinata su quel piano di divertimento e dell’informazione asettica che la classe dirigente privilegia e non lascia campi eccessivi a rischiose (per essa) forme di intervento. Per divertirsi a suo piacimento con gli elementi di una cultura diversa, la borghesia ha a disposizione gruppi innumeri di canterini, che le propongono giullarescamente i prodotti quando trasformati quando ripresi nella loro interezza, devitalizzati comunque dei loro sensi profondi, rubati ai legittimi possessori in nome unicamente di un allargamento del concetto di prodotto. Un altro insegnamento è possibile riconoscere, in ordine alla cosiddetta non comunicabilità del linguaggio della sperimentazione. Frantoio è indubbiamente uno spettacolo sperimentale, lo è soprattutto per la manipolazione dei linguaggi che lo caratterizza; ciò non toglie, però, che esso sia riuscito a comunicare con coloro ai quali sembrava difficilmente destinabile e ai quali, molto probabilmente, non si era pensato. Ma è anche uno spettacolo politico, un intervento vero e proprio, in quanto mostra la tendenza a perdere l’aspetto di spettacolo per assumere quello di azione. Che il tutto si sia verificato al di là e al di fuori delle intenzioni del gruppo dimostra soltanto che la ricerca e l’esperimento, quando siano condotti in assenza di ogni pregiudiziale mistificatoria, finiscono sempre con il rendere. Frantoio tocca per un momento il tema della tarantata;

Susu l’acqua, suttu lu vientu, suttu la nuce du Piripientu, la messa in scena realizzata dalla Linea d’Ombra, ripercorre interamente il problema/mistero della possessione e del modo attraverso cui la società oggi la accetta e pretende di curarla. Si diceva poco fa che questo spettacolo si muove in una sfera di tipo più dichiaratamente politico rispetto a Frantoio, se non altro per la scelta iniziale di destinazione che esclude o sembra escludere il pubblico dei grandi circuiti distributivi. E’ un’impressione che mi viene dal vivo non dalle dichiarazioni più o meno artificiose degli operatori che predicano in una maniera e razzolano, volenti o nolenti, in un’altra, un’impressione che mi viene dall’aver assistito allo spettacolo nella piazzetta in un piccolo paese dell’Irpinia. Ebbene, la rappresentazione che ha tutti i crismi per passare inosservata nei teatri regolari o addirittura per infastidire, qui come altrove ha fatto scattare una serie di meccanismi, legati tutti, come è ovvio, alla matrice della scrittura scenica, ma indissolubilmente alle radici morali, sociali o politiche delle persone alle quali veniva proposta. Spettacolo delle donne e per le donne, ha provocato, in primo luogo, la reazione da parte delle donne. In quei personaggi condizionati dal doppio potere che le donne subiscono: il potere che è contro tutti e quello che è contro le donne  particolarmente, le donne di quel minuscolo paese hanno riconosciuto il loro condizionamento eterno, dal quale non si esce e che può determinare le reazioni della nevrosi, il tarantismo, che attraverso l’abbraccio con l’antico mito della possessione consente alla donna di spogliare l’uomo dalla sue autorità e arroganza e può sperare di ricondurlo a un rapporto passabilmente dialettico, nella dinamica della logica della lotta di classe che non può (o non dovrebbe) distinguere fra le ragioni dell’uomo e le ragioni della donna.
Il filo conduttore è Le Baccanti, adoperata come un itinerario su cui inserire le più svariate e talora opposte provenienze, ma la problematica della tragedia euripidea è giustamente modificata dall’esperienza di teatro viaggiante effettuata nel mezzogiorno italiano.  I segni di una stagione, per breve che sia stata, vissuta con intensità a contatto con gruppi particolari e culture particolari sono avvertibili nella maniera in cui le componenti popolari si sovrappongono a quelle cólte, in una forma di contaminazione che, prescindendo dalla aritmeticità  della operazione, ha inserito nella scrittura dello spettacolo tutti gli interventi degli spettatori più attivi, ai quali certi giochi eccessivamente cerebrali suggerivano battute, gesti, comportamenti immediati e autentici. Il meccanismo ha funzionato in questi termini fino a quando è rimasto accanto a persone per le quali il problema delle baccanti/tarantate aveva un senso, per apparente che esso fosse. Quando è stato esportato dal suo ambiente quasi naturale, la dimensione dello spettacolo si è andata ispessendo, non lasciando più margini all’intervento ma consentendone un altro, di tipo critico. Forse in una condizione di minore densità rappresentativa e in ambiti diversi da quelli in cui era nato, lo spettacolo sarebbe stato rotto totalmente e sostituito da uno meglio aderente  alla condizione delle persone alle quali veniva offerto. E l’operazione avrebbe assunto, allora, un significato di intervento politico che è rimasto, al contrario, abbastanza sacrificato. Ma il momento della rappresentazione, adoperando la carica repressiva che tutti i fatti codificati in qualche misura esercitano, ha ritrovato una rigenerazione che voleva essere negata e ha recuperato almeno in parte la dimensione di spettacolo, sia pure di spettacolo popolare, riferendosi l’espressione a un momento particolare di una più complessa ( e non “popolare”) drammaturgia. Ma c’è in Susu l’Acqua come già in Frantoio un’apertura di interesse franco sul problema della destinazione, intravista una volta tanto nei termini concreti, sociali culturali politici, che ad altri teatranti pur variamente apprezzabilissimi sfuggono affatto. Può darsi che le valutazioni di ordine estetico siano opinabili: ma io le avanzo, nei casi indicati, perché coincidono, e anche ora non per niente, con quelle di ordine sociologico e politico. Dove queste categorie hanno naturalmente un significato a loro proprio e non dipendono nella benché minima misura dai valori che esse acquisiscono nell’ambito della cultura borghese. Del resto, è mai possibile adoperare lo stesso metro di giudizio per la messa in scena di una commedia di Molière e per il frenetico baccanale del carnevale di Montemarano?

ACHILLE MANGO

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