DALLA NATURA ALL’UMANO CONVERSAZIONE CON MARCELLO SAMBATI – di Marco Palladini

Approdato a Roma dal Salento oltre trent’anni fa, Sambati è un vero esempio
di poeta del teatro che sa tramutare parole e intuizioni profonde in azioni
che sulla scena tornano ad avere corpo, voce, anima. Tra natura e sentimenti.

Marcello Sambati è uno dei rari, autentici poeti del teatro italiano. Un autore, attore
e regista che reputo da molto tempo uno dei ‘maestri nascosti’ della scena di ricerca
che ha solcato dalla fine dei novecenteschi anni Settanta, ritagliandosi uno spazio di
azione e di pensiero artistico assolutamente personale e originale. Dal natio Salento è
venuto a Roma dove ha operato per oltre tre decenni, anche come inventore di luoghi
teatrali ‘alternativi’ quali Dark Camera/Furio Camillo e, più tardi, Campo Barbarico.
Da qualche anno si è però allontanato dalla capitale, vive nella campagna del viterbese,
vicino Tuscania dove cogestisce (con Ilaria Drago) il Teatro della Lupa. Il nostro
colloquio inizia proprio dalla sua attuale attività.

Qual è oggi il fulcro della tua ricerca?
Attualmente conduco tre laboratori con disabili sia psichici che fisici e uno
con tossicodipendenti nell’ambito di un Sert locale. Sono passato da una ricerca solitaria
a una pratica di condivisione a partire dall’ascolto della poesia che induce in loro
visioni anche folgoranti, nuove aperture di senso. In qualche modo è un teatro terapeutico,
che mi porta a un corpo a corpo con ciascuno di loro. Il lavoro che facciamo
ha sviluppato una fortissima necessità in loro, che nello spazio della scena vivono
momenti di vera illuminazione. Poi tornano a spegnersi. Questo ha reso improbabile
una mia presenza in scena: prima cercavo una alterità in me stesso, adesso il confronto
con la loro alterità renderebbe falso il mio esserci. Mi sono in un certo senso ripulito,
ho accettato la mutezza, la non presenza. Adesso avrei voglia di mettere in scena
l’assenza, ma ancora non ho trovato il modo, la forma giusta per me.

La vita in campagna ti ha dischiuso un orizzonte diverso, inedito, anche dal lato
del bisogno artistico.
Oggi la mia ricerca si sviluppa come relazione con la natura, quando vado nel bosco
attraverso il canto e il respiro dialogo con gli uccelli o con il vento. E fisso tutto con
un registratore portatile. Ho molto materiale sonoro di questo tipo che ho usato di
recente per una performance di due danzatori, “Esitazioni”, che ho diretto al
Teatroinscatola di Roma: il muoversi esitando (come il passo della cicogna), perché il
punto da raggiungere è dove sei. Ho cercato per tanto tempo l’altrove per scoprire ora
che è presso di me, nella relazione con la natura, con le piante, con gli animali. Come
fare esperienza dei fiori o delle volpi? Tutto questo mi ha aperto una nuova sensibilità,
mi ha trasformato interiormente. Dopo aver fatto tutte le esperienze teatrali possibili,
questo per me è stato un ricominciare, un ripartire da capo.

Questa ricerca senza fine, questa rivendicata distanza da qualsiasi mestierantismo
o convenzione di genere teatrale risale agli anni in cui la spinta a fare teatro faceva
tutt’uno con la voglia di cambiare la vita, di rivoluzionare l’esistenza e la società.
Quando arrivai a Roma dall’Accademia delle Belle Arti di Lecce incontrai per prima
la cooperativa di Giancarlo Mazzoni, ma fu frequentando il Beat 72 che compresi, io
che avevo fatto una tesi sull’avanguardia russa, quale fosse la mia strada. Ricordo uno
spettacolo di Fabio Sargentini, le apparizioni di Leo, l’atmosfera magnetica della Roma
delle “cantine” che poi ritrovai a New York quindici anni dopo al Cafè La Mama e
all’Off-Broadway. La mia prima performance la feci proprio al Beat, in una strana
serata che si apriva con Benedetto Simonelli che faceva “Smart Symphony”, un’azione
teatrale di una potenza e di una ferocia impressionanti. C’era Franco Cordelli che
era il critico dell’avanguardia, era per lui in pratica che si facevano gli spettacoli. E
Cordelli, di cui temevo il giudizio, fortunatamente apprezzò il mio piccolo lavoro: una
sequenza di lampadine collegate a una tastiera che si accendevano e si spegnevano, in
sostanza suonavo la luce. Allora mi ispiravo ai lavori di Simone Carella che erano
senza attori, puro teatro concettuale.

Il rapporto luce-oscurità ha sempre connotato il tuo teatro da “Pezzi del buio”
(1987) alla trilogia degli anni Duemila sottotitolata “Tre lezioni delle tenebre”.
Forse perché sono un avventuriero, tutto il mio teatro è un’avventura. Da ragazzo ero un
po’ malandrino, andavo di notte a rubare nei campi, amavo quella sensazione di brivido,
di pericolo, così il mio teatro ha spesso riattraversato liricamente il mondo notturno.

Le radici salentine riemergono costantemente nel rapporto con tuo padre, grande
affabulatore di mille storie, e con l’ambiente contadino.
Da ragazzo amavo salire sugli alberi, stare in bilico e spesso nei miei spettacoli ho sperimentato
posizioni funamboliche, ho cercato punti di rischio di caduta. A un Festival
di Santarcangelo diretto da Antonio Attisani recitavo un pezzo di Edmond Jabès stando
su un ripiano steso sul ballatoio della torre del paese a trenta metri di altezza. Era
il tramonto, pioveva leggermente, faceva fresco, io ero seminudo, presi a tremare, non
controllavo più il mio corpo, rischiavo di scivolare giù nello strapiombo. Allora separai
la mia mente dal corpo, fu come un’illuminazione, mi assentai da me stesso, recitai il
pezzo lasciando andare il corpo che trovò da solo le sue posture e mi salvò. Da allora
ho capito che il corpo “sa”, che non devo dirgli più niente, è lui che sa dove andare.

Nel Salento è forte la presenza del barocco religioso che ha largamente influenzato,
per esempio, l’immaginario di Carmelo Bene anche nella raffigurazione luttuosa dei corpi.
Sì, pure in vari miei spettacoli c’è il barocco come fonte d’ispirazione, penso a “Ecce
Homo” o “Eros, liebe”, nell’uso del corpo, nel cercare fisicamente l’involversi, la piega,
la piegatura, l’abbandonarsi a una sorta di emotività viscerale.

Dei tuoi lavori mi ha colpito il lavoro sulla immobilità del corpo per dare ancora
più forza espressiva alla presenza scenica.
Anche i danzatori con cui di recente ho collaborato erano affascinati dalla potenza
dello stare, dell’essere fermi, del non muoversi. Lo stare contiene tutte le direzioni
possibili, la sua forza è indicibile. Al riguardo, sto scrivendo un libro, “Verbario”, proprio
sulle modalità del significare mostrandosi.

Ecco allora che l’attuale stare nella natura per te è come una chiusura del cerchio
rispetto allo stare in scena, rinnovando e rivivificando il tuo fare teatro.
Non potrei mai fare un teatro psicologico. Il mio teatro muove da una interrogazione
profonda su e dentro se stessi che passa per la poesia o per la filosofia, ma anche per
il risveglio di tutti i sensi. L’odore dell’erba bagnata che mi sommuove tutto, o gli alberi.
Una quercia sento il bisogno di abbracciarla, di abbracciare la sua corteccia.
Davanti a una bella quercia tagliata ho pianto. Oggi cerco il mutismo, il silenzio che
trovo soltanto nella natura. La mancanza di rapporto con la natura è la nostra malattia,
non abbiamo guadagnato niente, abbiamo probabilmente perso tutto.

 

Quaderni del Teatro di Roma – Quaderno numero 15 – Giugno 2013, pp.16-17