dimore del butoh – di Marcello Sambati

per teatro e danza

Il Butoh esprime il tempo, l’inorganicità del tempo, la sua purezza; ne esprime i segni, le tensioni, le direzioni. Perciò gli spazi ideali ad accogliere questi eventi  sono i luoghi colmi di tempo, che il tempo ha scavato, ha reso disabitati, vuoti, in un certo senso puri. I corpi assimilano la natura del luogo, ne assorbono la luce, sentono le lentissime impercettibili trasformazioni della materia. Perciò non è raro in questi eventi confondere la carne e la pietra, la carne e il metallo o il muschio o l’ombra. Né è raro vedere dei corpi in perfetto equilibrio su una lama o una punta o su uno spigolo. Il muscolo teso come la nervatura del muro, simili nelle tensioni e simili nel farsi pura energia, esistenza, resistenza e potenza. E nello stesso tempo cogliere la narrazione, la storia o il poema che il corpo universo esprime.

Non tutti i luoghi sono adatti ad accogliere quella che in qualche modo si configura come una cerimonia di energia poetica; come abbiamo già detto gli spazi, come i corpi, hanno una spiritualità incognita oltre che una fisicità tangibile. Fondamentale è che ciò sia salvato negli eventi che il luogo stesso è chiamato ad ospitare. In questo senso il titolo del progetto ha un significato preciso: solo alcuni spazi, alcuni edifici, luoghi o architetture particolari hanno l’aura necessaria, quel vuoto silente che pure contiene le voci, gli echi e i suoni che si sono stratificati sulla pelle del luogo nel corso del tempo. Nelle dimore del Butoh saranno visibili le danze cosmiche, apparentemente immobili, dei corpi clessidre.

Ho conosciuto Masaki Iwana a metà degli anni 80 a Roma, credo fosse la prima volta che veniva in Italia. Mi fu presentato da Maria Inversi, che lo condusse nel mio teatro di allora, il Furio Camillo. Lo spazio lo affascinò e combinammo subito per un suo spettacolo. Da allora è tornato spesso per eventi, laboratori e spettacoli. Una sintonia di gesti, di ascolto, di sensibilità rispetto allo spazio scenico, al dolore fisico, al rischio o forse è più giusto dire al desiderio della ferita: questo ci rendeva  in qualche modo empatici: da allora al Furio Camillo si è coltivata  una sorta di seconda lingua, nativa  per così dire, soprattutto negli spettacoli che ho realizzato in solitudine, ed anche la mia scitttura poetica ne ha accolto il respiro lento ed essenziale. Tutto questo è molto evidente nel progetto delle Tenebrae, viaggio rischioso e pericoloso sui bordi dell’esserci e del non esserci, nel senso letterale dei termini.

Marcello Sambati

 


anche in:
appunti