gli arcobaleni di Edmond Jabès (1992)

E’ tempo di mettere in ombra, di togliere di scena. E’ tempo di esilio, di astinenza. Ritrarsi, squilibrare l’ibris. E’ tempo di implesso e di umiltà. La gramigna ha invaso i luoghi del sapere, radicandosi sui corpi più belli, sulle figure più care. Sui bordi della riconoscibilità, come tutto il presente, un confine che ci taglia in due. Oh, disperazione dei margini, dove non è possibile chiudere gli occhi e risparmiarsi questo disastro. In prossimità del cielo, il corpo è attraversato dall’orizzonte. Là è la radura dei nostri nodi, e degli oblii. Cristalline e sensuali manciate di vuoto e le durissime lacrime del nulla. Il fragile corpo è invaso dalla luce, è un apparente vicino allo zero, aperto, già arcobaleno, già luogo immateriale.

Da dove venissi, non aveva più importanza.
Dove mi recassi, non interessava nessuno.
Vento, vi dico, vento.
E un po’ di sabbia nel vento.


anche in:
anni '90