Il respiro del poeta invisibile (intervista a Marcello Sambati di Sara Mantegna (Succoacido.it)

II sentimento sofferto di un’artista in un percorso raro: quello di uccidere l’ego per far emergere l’atto unico e dissolversi in esso. Marcello Sambati non può lasciarci indifferenti, i suoi scritti, il suo teatro sono come il vento di tramontana o di scirocco, la pelle non può che reagire, stimolando il resto del corpo. Il carnale più etereo che potete incontrare negli angoli silenziosi della creatività.

S: Volevo sapere se sei sempre direttore di Tuscania Teatro, e quali sono i tuoi progetti (e i tuoi sogni, realizzati e non) per questo spazio, se oltre ad organizzare un cartellone annuale vi è affiancata una produzione ed anche progetti di formazione.

M: Si, sono sempre coinvolto, ma Tuscania Teatro non ha più fondi dalla Regione Lazio, avendo l’attuale regime di destra di Storace affossato le realtà culturali innovative della regione. Parafrasando una battuta di stampo medico, l’esperimento della Residenza multidisciplinare? Teatro, musica, danza? E’ perfettamente riuscito, ma la Residenza è morta. Continuano tuttavia alcune iniziative fondamentali, quasi autogestite, come il laboratorio teatrale con ragazze e ragazzi disagiati, a cui tengo molto, finanziato in parte dal Centro Socioriabilitativo di Tarquinia. E continueremo, nonostante tutto, a credere che prima o poi possa ricominciare anche una vera programmazione teatrale. A Tuscania ho comunque stabilito la sede artistica di Dark Camera, in uno spazio bellissimo dove conduco i laboratori e allestisco i miei spettacoli, con possibilità di ospitare artisti in cerca di solitudine e silenzio.

S: Cosa ne pensi dell’autonomia dei teatri, di un modo indipendente di amministrare l’economia e il sistema di produzione?

M: Il teatro fa gli affari, come ogni altra attività umana; produce spettacoli per il mercato ed anche per il suo rovescio nobile, la ricerca, si, l’infame ricerca che ci ha massacrato e portato all’autoesclusione. Il mercato, ma di più, a dire il vero, i bottegai che lo determinano, imperano e trionfano, producono e programmano spettacoli costosi e inutili, per non dire pericolosamente, mortalmente insulsi e se li scambiano in un circolo vizioso di cui non si vede la fine. In realtà l’unica autonomia che esiste è nella nostra capacità di pensare un teatro diverso da quello che si vede in giro. Ma la possibilità di realizzarlo e diffonderlo è vicina allo zero. Non dovremmo lamentarci ma urlare, e lottare, duramente, per aprire un varco alle generazioni future.

S: Riconsidereresti il processo creativo in nuove forme, visto la stagnante situazione teatrale? E quali?

M: Sarei più attento all’informe, lascerei più spazio, più possibilità all’incompiuto, al possibile che si cela nel non formato, ed anche all’impossibile. L’informe ha molte e molte facce e corpi infiniti. Rendersi conto che tutto ciò che è stato fatto di bello, di straordinario e sublime non ha svelato nulla ancora del mistero dell’essere e della vita. Questo è lo straordinario dell’arte e della poesia: che pur dando forme e rappresentazioni del meraviglioso o dell’abissale, non ne svelano mai il mistero. Rendiamoci conto che non sappiamo nulla del senso delle cose né del senso nostro. Questo rimette sempre in discussione il risultato del nostro lavoro. Non nel senso che un’opera sia priva di valore, ma che non scalfisce il mistero, non apre nessuna crepa nell’intangibile per svelarne o coglierne un alito.

S: Se dovessi criticare qualcuno o qualcosa?

M: Io non posso criticare nessuno; ognuno nuota o sguazza nella propria acqua che spesso è una melma. No, criticare significa riconoscere che “costoro” avrebbero potuto agire diversamente. Ciò era ed è impossibile. Moriranno, prima o poi, è la mia consolazione. Nelle mie orazioni sciamaniche propizio la loro morte.

S: Restando nel tema della creatività veniamo a te: insegni scultura, sei poeta, drammaturgo, regista e attore, non conoscendoti si potrebbe pensare a un delirio di onnipotenza, ma spesso dietro l’eclettismo si nasconde un grande desiderio di unità, quali sono i tuoi impulsi verso queste arti?

M: Ho pensato a cosa avrei fatto se non avessi scritto poesie, se non avessi fatto il poeta e l’attore. Lo so, lo so cosa avrei fatto. Lo sento ma non ne ho vergogna o paura. Avrei fatto il ladro, forse l’assassino. Sarei stato spietato. Ne avevo chiaramente la vocazione. La mia realtà, che coincide con lo spazio e il tempo della scena, è impenetrabile agli estranei, come la scena di un delitto perfetto, con prospettive inimmaginabili e sguardi furtivi. Assassino come rapace, ladro come trafugatore. Ed è là, in quella-questa realtà che cerco con sacrificio, nel corso del mio tempo, disperatamente, una nudità spirituale. La mia realtà è la scena e quindi è nella scena che devo cercare questa nudità. La scrittura perde volume, si fa asciutta, netta, si spoglia e si denuda. Ho sempre sentito lo spazio scenico come arena, spiazzo per duelli selvatici, aia solare per conquistare la luce e il visibile. L’aia dei giochi infantili, dove potevamo essere davvero nudi di certe nudità estreme e mimare Eros in tutte le sue forme e Thanatos che non c’impauriva. Potevamo mimare la morte e l’amore, l’assassinio, lo stupro, la violenza e la dolcezza, l’odio e la guerra. Non continuiamo a farlo per tutta la vita? Quello era il teatro, quello è sempre, ancora.

S: Hai mai realizzato quest’unità?

M: Forse in certe frasi poetiche, in qualche terzina chiusa in sé stessa e indecifrabile o forse in due o tre spettacoli, La costruzione della luce, sulla poesia di Milo De Angelis o Gli arcobaleni di Edmond Jabès o Koto Ba. Spettacoli dove luce, gesto, parola diventavano auree intorno ai corpi.

S: Sei un personaggio schivo e intimista, la tua guerra (parola brutta oggi, ma in questo caso bella e forte) con la parola, non compensata da un virtuoso lavoro fisico, (ma solo da un soffio che a volte si fa urlo) ti allontana dal pubblico dei più. A chi quindi pensi di offrire i frutti del tuo lavoro?

M: Si deve rappresentare ciò che non si può vivere, tradurre gli indicibili e ricomporli in una lingua per attori, siano essi parlanti o muti. Perché ci sono “ancora figure al di là dell’umano”, oltre i confini: ombre impercettibili, vite di un solo fuggevole istante, non illuminabili, soffi che si cancellano e si perdono senza mai essere uditi. Siamo forse noi? Ecco, amo un teatro che può cogliere e rendere duraturi e folgoranti fenomeni fragili, invisibili, un teatro di etologia generale che cerca forme di contatto “vocale” tra gli esseri viventi tutti. Chi mai cercherà di stabilire un dialogo, una qualche corrispondenza con un verme, una capra, ortiche, pesci o Merope, la farfalla invisibile? E poi io non devo e non voglio dare niente a nessuno. Produco poco e non mi aspetto nulla. Il teatro è un fatto privato, un’intimità illuminata per il mondo, una pratica filosofica e poetica di conoscenza, di dialogo con il mondo. Mi basta soltanto essere, anche per poco, ogni tanto, nell’incognita bellezza della scena. Penso il teatro come la vita, vivo la vita come un atto unico, una danza, un vento. Infine si, forse, creare una qualche piccola opera, una forma cristallina, possibilmente indecifrabile, ermetica, intangibile. Questo si, mi piacerebbe, questo si lo voglio. Lasciare qualche piccola perla che la luce possa attraversare, uno o due sassi levigati, lucidi, lasciarli lì, che qualcuno li possa toccare o vi si possa rispecchiare. Portare agli occhi, portare al cuore. Che riflettano comunque lo sguardo di chi li guarda.

S: Se volessimo dire a chi legge qual è il tuo palpito in una creazione teatrale, e cosa sono i corpi e le anime, gli attori, che si muovono per te e con te?

M: Ho sempre pensato che esiste un profondo legame, una comunione tra la voce e l’anima, anzi penso che siano la stessa cosa. Quando vi è un dolore l’essere si esprime col lamento e quando è felice con il canto; e poi il tono della voce nel dire le cose, rabbiosamente o dolcemente, col grido o col sussurro o come pregando e l’urlo, il sospiro. La voce se non è propriamente l’anima, certo ne testimonia la presenza e ne svela la forma. La voce vorrebbe essere liberata dalla parola per andare nei territori propriamente suoi, per farsi forma necessaria dell’anima: canto, suono, richiamo, segnale, vibrazione. Corpi e attori: melodie per esprimere le condizioni e le metamorfosi incessanti. Infinita è la tela dipinta da un profumo, dico in un testo. E il femminile, la parte di me la cui mancanza mi rivela pezzi di un’altra verità, regioni istintive e spirituali che mi svelano altri linguaggi ed esperienze mancate. Dal cordone ombelicale al batticuore, il sangue e il latte, i liquidi della vita. E i flussi, le temperature, le stagioni. Vita che contiene vita, natura e linguaggio. Sono certo di una cosa, il femminile è la plenitudine delle forme viventi. Le preghiere di un ateo, ecco cosa mi ricordano i tuoi lavori e anche i tuoi scritti mi suggeriscono queste parole strane. A volte l’inferno si fa subdolo, le parole feriscono, ma forse lo chiamerei purgatorio, data la presenza di una particolare “luce”. La nostra intelligenza non è che un grido, un grido nel vuoto che ci rimanda l’eco. Nessuno davvero mai risponde. Dunque io ripenso il mio lavoro, il senso e lo scopo del lavoro umano come un dialogo col mistero di cui l’Altra parte non è che l’eco del mio grido. Da tempo ricerco la limpidezza del gesto, la trasparenza dell’immagine e la parola chiara, lucida. Cerco il teatro di un solo gesto puro e visionario, perché intorno alla visione non vi è nulla. L’oblio, l’abisso del niente. Io devo dialogare con l’insensato. Non posso più usare un linguaggio sensato. Il linguaggio umano non può trovare corrispondenza con l’inorganico, col vegetale e l’animale, col silenzio e lo spazio, da sempre e ancora in ascolto, e con tutto ciò che non conosciamo. Con ciò che è insensato si può in definitiva dialogare insensatamente. Si, bisogna lasciarsi cadere, precipitare e sprofondare nelle viscere della cosa, insensatamente.  Abbandonarsi ad un vero smarrimento, come cerco di fare nel mio lavoro attuale, queste “Lezioni delle tenebre” che propongo in giro in Italia. Un’esposizione disperata, estrema. Un naufragio nelle melme, apparizione di un cupo Eros bruciante e visionario, metallico, una parlata di parole storpie, non destinate, ritorte come rovi, quasi impazzite che echeggiano e svaniscono.

S: L’alchimia della trasformazione prevede un mutamento straordinario, la tua poetica è una trasformazione alchemica. Quindi chi è Marcello nel quotidiano, un asociale, un distratto, un insensibile? E nell’intimo è il silenzio dell’egocentrico? L’implosione che si fa vuoto per punire il mondo? Marcello è una figura delicata, gentile, ma la lacerazione della carne nasconde il desiderio. Quale desiderio ha questo artista? Quale l’uomo?

M: Modellare aria, fumo e vento. Frugare cento libri cercando una parola. Ululare, gridare, cantare. Ognuno di noi avrebbe bisogno di essere spiegato, di essere tradotto. Dei sottotitoli. Lasciare che un fuoco s’inneschi nel corpo e lo scompagini annichilendone il linguaggio e ricreandolo in forme sciamaniche e musicali. L’enorme quantità di boli amari inghiottiti a fatica, l’orrore di una contemporaneità estranea e nemica, la certezza di essere capitato in un tempo e in un paese dove gli altri vedono cose diverse da quelle che io vedo. “Io non sono di questa specie” dice uno dei miei personaggi. Ma piuttosto partecipo delle nature del serpente, del volatile e dell’arbusto disseccato, ne condivido l’ineffabilità delle lingue. C’è sempre un tempo di semina e fecondazione e quindi di caccia, di accumulo e nutrimento, in cui si è onnivori e a volte cannibali, crudeli e immorali. Si, in realtà noi divoriamo tutto. Forme, colori, suoni, con lo sguardo, l’udito, la bocca, tutto ingoiamo in un crogiuolo bruciante, per lo stomaco e le viscere. Mastichiamo, rigurgitiamo, ruminiamo e vomitiamo: l’esito lo chiamiamo forma, opera, bellezza. L’opera, in genere, vorrebbe essere l’ultima, vorrebbe essere alla fine del mondo, essere radicale, esplosiva, micidiale, implacabile e irripetibile, unica come un delitto perfetto. Spaventare. L’arte esemplare è perforazione, penetrazione e incantamento.

S: Quando l’uomo è identificato nell’artista?

M: Io sono solo, altri sono soli. Ma è sicuro: quelli che dominano non sono soli ma coalizzati in squadra, scuderia, gruppo. Ma tutti questi termini non sono sinonimi di fascio? Per questo sono solo e non “lego” con nessuno. O m’innamoro o niente. Uno che è solo e magari anche innamorato, lo ripetono anche le rane gracidando in coro, che potere ha? Da uomo osservo gli animali e le loro vite inferme, i loro corpi ermetici e infranti che nessuno potrà mai risarcire e penso alla nostra non opposizione, nutriti alla stessa grande mammella della terra. Un brivido sempre mi viene da una specie di contatto, di contagio emotivo. Ecco, una specie di nudo sentire, umano e non umano, in empatia con certe creature. Dei movimenti propri dell’essere poco si sa con certezza: attrarre, allontanare, trattenere, creare distanze incolmabili che poi in un istante si annullano in un’intimità, in una fiducia indicibile, dice Maria Zambrano.

S: Questo artista, come ultimo atto, sarebbe capace di sparire nel solo e nudo uomo?

M: La nudità, dunque. Più la ricerca sprofonda in regioni strane e oscure, pericolose, più rivela la fragilità del corpo reale, la sua inadattabilità e inadeguatezza, la nudità di un angelo smarrito o di un demone confuso. Ma tanto di questo corpo, di questo essere reale si è messo in viaggio per queste regioni oscure; dunque poco resta all’essere reale per essere reale. Gioie, nessuna. Amore improbabile. Felicità impossibile. Dolore, dolore forse, e follia. Dolore di non sapere, di non capire, di non trovare, di non avere risposte, nessuna mai, per tutta la vita e follia di continuare a cercare, a domandare, a sognare e a vivere. Solo e nudo uomo, perso tra luce e buio, sgomento e infine senza parole. Tuttavia è necessario distillare, illimpidire la propria vita, andare verso la nudità, principio e fine. Denudarsi di sé, uscire di scena, finalmente, già quasi sparire dalla scena artistica e da quella umana insieme e accedere ad un infinito, senza riserve, senza ritegno, con un atto d’affetto per la propria origine e il proprio destino.

pen: Sara Mantegna


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