Intervista a Marcello Sambati – il secolo XIX (9/4/08)

Un percorso in movimento fra teatro, poesia, corpo e parola. Lo spettacolo “Dall’oscurità” di Marcello Sambati è la prima parte di un trittico che si chiama “Lezione dalle tenebre” e che si completa con altri due tempi intitolati “Addio” e “L’incompatibile”. Salentino, 60 anni, fondatore nel 1980 a Roma della compagnia Dark Camera e del Teatro Furio Camillo, Sambati è autore e attore di spettacoli che hanno fatto il giro di festival nazionali e internazionali: opere come “Paesaggi metropolitani” rappresentata a Vienna, “Ecce Homo per Friedrich N.” a New York. Autore di libri di poesia, tra i protagonisti del film di Franco Battiato “Niente è come sembra”, ha fondato nel 1998 Tuscania Teatro, residenza per arti sceniche.

Come nasce “Lezione dalle tenebre”? «Parte nel 2002 con lo spettacolo che farò alla Tosse e prosegue con altre due lezioni, tre momenti di un unico percorso che spero di rappresentare in un’unica opera in autunno. “Dall’oscurità” è l’inizio di un viaggio, di un esplorare, un teatro interiore fatto di ripensamenti, spasimi, lacune. Fatto di luce e di buio, quasi un metronomo visivo indipendente da quanto fa l’attore in scena. La luce non illumina l’attore, il buio non nasconde ma rivela. L’una non può fare a meno dell’altro».

In cosa consiste il viaggio? «Si tratta di fare il punto di una vita, di ripercorrere i momenti più belli e quelli più dolorosi, con un ascolto e una partecipazione come a un fenomeno naturale, di vicinanza con il mondo animale e il suo linguaggio, come se il corpo umano in qualche modo risarcisse questi nostri fratelli senza parola che abbiamo dentro di noi, perché li abbiamo divorati».

Al centro della scena c’è una lastra metallica scura e pesante, inclinata: «È un abbandono al mondo interiore, alle viscere, un ripercorrere le foreste e i deserti della vita, i suoi agonismi, rinunce, ma anche i suoi entusiasmi ed amori». C’è un testo? «Sì ed è essenziale, è poesia, è scandito, sono testi brevi, che raccontano in modo lirico ciò che il corpo racconta in altri modi. È quasi il momento del riposo in cui si lascia alle parole una mediazione, quando non c’è la parola vuol dire che non poteva esserci. Sono versi che usciranno in volume sotto il titolo “L’ospite inconsistente”».

Un teatro difficile? «A dirlo sì, a vederlo no, nella visione si comprende tutto. È fatto di cose con le quali ciasuno di noi convive ogni giorno. Questo spettacolo è il risultato di uno studio sulla gestualità senza scopo che viene da lunghe frequentazioni con le culture orientali, quei gesti senza senso che sanno diventare davvero pura danza. Il corpo è abbandonato, potrebbe sembrare schizofrenia ma non lo è, sono traiettorie impensate, non calcolate».

Ma allora in che senso Sambati può parlare di “teatro dell’interiorità”? «In questo momento particolare, in cui va così di moda il teatro di narrazione, sociale, questa è invece una rielaborazione del reale, del contemporaneo, del passato e premonizione del futuro, elaborata interiormente e restituita alla comunità in una maniera lirica e folle che non ha niente a che fare con la narratività. Sono testi scarni, ma anche molto forti, quasi a livello di scrittura presocratica, vengono dalle viscere, sono racconti dell’anima e dell’essere».

 


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