Opposizione delle Creature di Marcello Sambati – L’ascesi dell’angelo ribelle – recensione di Marco Palladini(Paese Sera 1989)

Un lavoro le  di forte e poetica impronta spirituale al Furjo Camillo. Tra due corpi, uno maschile e l’altro femminile, una lotta senza vinti né vincitori.
La domanda oggi cruciale per chi segue le cronache teatrali è: dov’è la differenza? Ossia, in un panorama omologato caratterizzato da una caduta verticale delle ideologie artistiche – tale che da Ronconi a Lavia, da Martone a Sepe, da Strehler a Perlini, il teatro che si fa non varia, o meglio varia solo in dipendenza del differente talento estetico -, dov’è quel di più, quella diversità di evento scenico che veicola un’emozione, un pathos, una – esito a dire la parola – verità capaci di toccare il profondo, il pensiero, le certezze acquisite dello spettatore?
La differenza teatrale è volatile, impermalente, non la si può definire per presupposizione teorica – come sostenevano i sostenitori del Terzo Teatro – , ma c’è. E in linea di massima non la si trova mai nei luoghi “ufficiali” del teatro. Appare talvolta in spazi negletti come il Furjo Camillo dove da anni opera Marcello Sambati. Più seguo la sua attività, e più mi stupisco di come abbia potuto fare la sua comparsa e fortificarsi, in una città epicurea, cinica e materialistica qual è Roma, un anacoreta teatrale del calibro di Sambati. Lontano da mode e tendenze, orgogliosamente solitario, con dura e ascetica disciplina, Sambati ha costruito la sua differenza che oggi splende come una gemma in confronto di tante stelle viepiù opache.
Lo testimonia Opposizione delle Creature, uno spettacolo di rarefatta, luminosa spiritualità, dove la purezza dell’assunto – la lotta dell’io e dell’Angelo –si carica e s’intorbida di domande terribili che attengono al mistero della natura umana in cui convivono il demonico e il divino. L’agone della lotta è una grande lastra di lamiera concava dove i corpi seminudi di Io (Sambati) e l’Angelo (la brava, intensamente accanita Daria de Florian) si combattono sull’orlo dell’infinito. L’Angelo sputa in faccia all’altro, lo punge con la spada, gli spalma addosso una tintura rosso sangue come fosse un indio amazzonico, lo tormenta conciato come “Quetzalcoatl” il dio serpente azteco, beve da una tavola imbandita calata dall’alto e poi gli rovescia il liquido nel fondo della gola. Dal soffitto grandinano arance, una ventola alita vento caldo e solleva polvere di piume, i due corpi si aggrovigliano, poi l’Angelo salta sulle spalle di Io che lo depone al suolo, quindi fa risuonare un’antica campana, e si appende al suo batacchio dondolandosi in controluce. Tregua finale con le due creature unite nel medesimo, etereo cerchio, eppur separate da una immensurabile distanza.
Nella messinscena si afferma a un dato punto “le ossa dicono più della parola” e certo la tensione fisica qui dice, “significa” l’opposizione. Ma c’è dell’altro – la scritta iniziale “Comincia un’altra stagione” -, che lascia capire che l’inizio, ogni nuovo inizio, come sostiene Gianni Scalia, è dopo la lotta con l’angelo.  Ricomincia dopo la lotta con l’inganno, peraltro necessario, delle sue apparizioni. Se l’angelo è il padrone, Io è il ribelle; ma se l’Angelo è il compagno sconosciuto, l’alter ego, Io si ribella contro se stesso, e la follia della sua ribellione è la dannazione di Lucifero, colui che osò affrontare Dio. Sambati non scioglie le opposizioni, le ambiguità, semmai le esalta splendidamente, con macerato candore, superando in fondo tanta “angelologia” oggi ritornante (vedasi Cacciari, epigono Rilkiano). Piuttosto la sua partitura scenica si pone a caposaldo di possibili “angelofanie” future, che non potrebbero non essere percorse dal poetico quesito di Baudelaire: “Angelo pieno di gaiezza, conosci l’angoscia?”.

Da Paese Sera 24 febbraio 1989