Queste “Nature” sono già fra noi, recensione di Gualtiero Peirce (Il Diario di Napoli,1980)
Di Marcello Sambati avevamo già visto nello scorso febbraio sempre a Spazio Libero, il suo “Prototipi”, un’operazione di rigorosissimo lavoro scenico sulla luce. Questa volta con il suo “Nature” abbiamo potuto vedere un lavoro splendido per lucidità e carica spettacolare.
Lo spazio è vuoto, solo una fioca luce rossa e il pavimento ricoperto da uno strato argenteo e riflettente.
Iniziano a sentirsi dei suoni e dei rumori che evocano situazioni e spazi “esterni”. Ci si comincia già a trasferire in una situazione di probabile fantascienza. Su una parete iniziano a scorrere le immagini di un film: si tratta di frammenti di luoghi e tipi del paesaggio delle metropoli e del nostro immaginario collettivo: pin up, motociclette, un giocatore di hockey bardato, qualche nudo. Poi d’un tratto, dal nulla, si materializza una sorgente di luce filiforme, proprio davanti allo schermo, poi accanto a questa un’altra, ed altre ancora.
Mentre suoni e rumori confermano l’ambientazione aliena e futuribile, queste capillari apparizioni luminose cominciano a configurarsi per numero e mobilità come una “comunità”, forse dello spazio, comunque di un altro mondo. Lo spazio mentale che li può se non riconoscere almeno identificare è quello abituato ai fittizi “laser” elettronici dei videogames, solo che stavolta le proporzioni sono stravolte e i lunghi filamenti si propongono come insidiosamente concreti.
Questo paesaggio alieno continua a scomporsi e a ricomporsi secondo un’evidente logica preordinata confermandosi sempre più definitivamente nella sua radicale “diversità”, finchè d’un tratto compare Sambati, con un paio d’occhialoni da astronave ed una macchina fotografica; cammina spedito sul pavimento metallico evitando con sicurezza le lunghe luci capillari anche quelle che, spente, sono invisibili. E il luogo dell’abituale immaginario della fantascienza è ora completo: adesso c’è anche l’uomo, che serve in fondo, a legittimare la nostra stessa presenza come spettatori.
Ma non è finita: dopo un primo passaggio Sambati ricompare, si avvicina al filamento centrale, un proponibile “capo della comunità”, e con naturalezza si accende una sigaretta posandola sulla lunga incandescenza luminosa, per uscire poi di scena.
Un gesto finale determinato e rassicurante se vogliamo, ma che al tempo stesso pare voler indicare che lo spazio della fantascienza non è solo mentale, non è solo futuribile, ma è sostanzialmente praticabile e insinuato già nelle intercapedini del nostro reale quotidiano.
E Sambati, operatore occulto nei suoi precedenti lavori, pare volerlo indicare innanzitutto con la sua presenza in scena, in questo spettacolo in cui la perfetta organizzazione di pochi intelligenti materiali riesce a dare la forza spettacolare di una “superproduzione”.
25 ottobre 1980
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