TEATRO
C’è bisogno e necessità di un "grido". Un pensiero del teatro nasce dall’esperienza di una passione che, benché soffocata, allontanata e interdetta, persiste e ritorna "come il gemito di un abisso che venga aperto". Il teatro è un atto della vita, perciò lo si fa, lo si fa per essere compresi più che per essere osservati. "E’ la coscienza a conferire all’esercizio di qualsiasi atto della vita un colore di sangue, una nota crudele, perchè è chiaro che la vita è sempre la morte di qualcuno" dice Artaud nella Prima lettera sulla crudeltà. Il teatro è, come ogni passione, smarrimento e perdizione nell’assolutamente necessario, dove cerchiamo la presenza vera e reale di noi, e che ce la rivela intera, su quella polverosa costruzione, dove l’istante del respiro sospeso si espone disperatamente. Il teatro non si deve confondere con altro di sé: cinema, TV, video, messinscene di testi, regie di spettacoli, rappresentazioni di scritture artistiche o sceniche o con vaneggiamenti vocali o poetici:tutto ciò è altro dal teatro, non ne costituisce affatto la materia, non può essere inscritto nella geografia di quel "grido" lancinante. E mentre i registi, gli scrittori e drammaturghi e quanti altri intenti alla macellazione del "teatro", descrivono e smerciano le mummificazioni dei respiri sospesi della vita, il teatro è di nuovo altrove, infantile e balbettante, con un nuovo corpo, fragile ma forte nell’umido del sangue che scorre e nell’attaccamento all’aria e al cibo. Il grido. Il punto di fuga di una prospettiva rovesciata, punto situato dentro di me, nel mio esatto istante ammutolito, nel respiro fermo, nel pensiero impietrito (un pensiero che si fa di corda stringente); questo soffocamento breve e secco, che non ha in sé fantasma alcuno, né una costruzione né una storia, che non nasce da una pratica del passato e non aspira a farsi "sapere" per un futuro, che non ha e non vuole avere durata, che rifiuta soprattutto la condizione di "esibizione" e di spettacolo: questo punto di fuga è il grido. Ed è la materia vera del teatro, ne forma l’elementare linguaggio che incendia il propriodire e lo rende non dicibile una seconda volta. Questo linguaggio non è utilizzabile da nessun altro per nessuna ragione, ed ha una grammatica le cui regole valgono per quella sola frase. Mi trovo in questa riflessione rabbiosa, come una miccia pronta per la combustione. Dichiaro il mio orrore impotente davanti a tutti i discorsi sul teatro come davanti a tutti gli spettacoli che non si presentino come vertiginosamente pericolosi e in guerra, per la conquista di una realtà chiara e profana. Il grido che vuole ascoltarsi è il più forte. Dico che il miglior teatrante è colui che meno sembra essere nato per esserlo. Vi saranno dunque rappresentazioni di un teatro di gesti sospesi, di presenze fuori di sé, di tensioni, per allontanarsi dai linguaggi e accostarsi al parare del teatro, che sarà indipendente e nascosto, per costruirsi la forza omicida di sopprimere le lingue farfuglianti e oscene usate dai padroni del cibo. Perciò è necessario non concedere nulla, bisogna dimenticare ciò che è stato, ma soprattutto ciò che è, perchè aspira a dominare violentemente il campo del mormorio delle lingue oscene. Ci saranno, credo, lavori duri e difficili, che si presenteranno con un linguaggio in formazione ma forte. Occorre fare la guerra, ora, ai detentori del potere teatrale, bisogna eliminarli, costoro, è assolutamente necessario impedirgli la professione d questo potere: hanno ridotto quest’arte all’osso, che tuttavia stringono saldamente, esibendo interminabili, inesauribili esposizioni demenziali che chiamano, forse a ragione "spettacoli". Costoro non sono ammessi a partecipare del grido, perchè l’intimità da cui scaturisce è fuori di sé, nel di fuori abbagliante che chiama e rifiuta, che sceglie infine, per chi mostrarsi come incanto. Come grido meravigliato della vita. Ecco alcuni pensieri di una cruda passione. Marcello Sambati Dark Camera n.2 febbraio 1988 Marcello Sambati Stato Solitario di Allarme Foto
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