Tra danza e poesia, le Esitazioni di Sambati e Arcalòh – Sergio Lo Gatto – Teatro e Critica 2013

Chissà poi se sia vero o no che l’arte debba comunicare qualcosa. Scritta così, questa frase ha tutte le sembianze di una bestemmia assoluta (valida per entrambe le “fazioni”), un’idea retorica che riparte da zero e mette in discussione uno statuto fondamentale.
Non è comune, nel nostro teatro di oggi, trovare poste sul palco domande che sembrano recuperare proprio quel pensiero originario e soprattutto riconoscere loro uno stile di ragionamento assolutamente nudo, bianco e scarno, dichiaratamente essenziale, nell’apparente tentativo di indirizzarsi al pubblico e – per estensione – alla comunità teatrale levando di mezzo squilli di trombe, dichiarazioni radicali di intenti o annunci di novità rivoluzionaria.
Ci è capitato tornando, dopo tanto (troppo) tempo, al Teatroinscatola, un minuto spazio romano fatto proprio a scatola chiusa, dove andava in scena in tre repliche secche il breve lavoro Esitazioni, incontro tra il teatro-danza di Melissa Lohman e Flavio Arcangeli (Compagnia Arcalòh) e la poesia e la vocalità di Marcello Sambati.

Seduti sul parquet in posizioni estremamente composte quasi da statua indù, i due danzatori danno le spalle al pubblico che prende posto; come ombre colorate o immagini di altro tempo, sulla parete di fondo sono proiettate le loro figure erette, separate tra loro, lontane da noi. Prima che nel finale le due figure si uniscano, il semplice piazzato di luci non salirà mai al suo massimo, in scena non ci sarà bisogno di niente se non di questi due corpi che vivono da dentro lo spazio e che – con movimenti ora lenti ora frenetici, ora sincronizzati ora in chiara avversione di ritmo – danzano la carnale voce off di Sambati, i suoi colori opachi, la superficie ruvida della sua poesia netta e sepolcrale, in cui il graffiare di immagini di natura morta e stramorta si alterna al tonfo sordo di certe visioni, come cupe epifanie di consunzione, come presagi.
Nel sostantivo che dà titolo all’opera – necessariamente declinato a un plurale che ne apre mille e più sfumature – c’è quasi tutto l’occorrente per entrare in questo straniante rituale del dormiveglia: è un esperimento di ipnosi cosciente in cui ci si ritrova con i sensi invertiti, tra gli occhi che ascoltano le sillabe incrostarsi e distorcersi nell’elaborazione sonora e le orecchie che guardano i corpi farsi e disfarsi in flessioni estreme, incroci di arti e busti e illusioni ottiche che tolgono di mezzo la sembianza umana.
In più di un punto il piccolo uditorio sembra aver condiviso uno stato di attenzione profonda. Il braccio dell’uomo davanti a noi, raggiungendo – per caso o no – la schiena di chi gli sedeva due posti più in là, l’ha fatta sobbalzare di un brivido isterico, tra paura, eccitazione e ritorno alla veglia.

Al di là dei messaggi di superficie, il senso profondo di questa opera che sa di testamento (e del cui «ermetismo» lo stesso Sambati, tornate le luci in sala, si scuserà con il pubblico) sta nella presenza dello spettatore, nel semplice suo stare: una dimensione totalmente altra e resa fruibile dal pregio della breve durata trascina l’esserci dentro una necessità, un raccoglimento, una sorta di ipnosi. Allora eccola la nuova faccia di un’arte che – nonostante tutto – sta comunicando.

Il Teatroinscatola è una realtà fieramente indipendente che ci tiene a sottolineare lo statuto di luogo solo ed esclusivamente dedicato alla ricerca scenica, senza trattative con l’intrattenimento puro o con l’enogastronomia – il riferimento alla vendita di cibo e bevande utilizzata in altri luoghi indipendenti è tutt’altro che casuale. Se da un lato si apprezza questa condotta purista, che si permette anche il lusso di esperimenti arditi come quello di Sambati e Arcalòh, viene comunque da sottolineare l’importanza di costruire con il pubblico un tessuto di contatto il più vicino e aperto possibile, di trovare i modi e i mezzi per dare forma – pur nell’assenza di compromessi – a una costanza nell’offerta e al richiamo necessario che essa deve rappresentare per la comunità teatrale. In modo da poter lanciare, dentro le pareti della scatola, qualsiasi scommessa artistica, liberando i suoi risultati dalla gabbia di un’operazione troppo marginale.

Esitazioni era una prova che, senza per forza assegnare a un’opera il compito di dettare un significato, si può di certo immaginare che l’orizzonte di comunicazione dell’arte si limiti all’esternazione dei propri processi profondi. A patto che gli spazi dell’arte si impegnino in un movimento di raccolta e di inclusione che assegni al pubblico l’opportunità di entrare in contatto con quei processi.

Sergio Lo Gatto

Teatro e Critica, 23 marzo 2013