Tra passato e futuro: un dialogo con Marcello Sambati di Mariateresa Surianello (La differenza.it 2008)

 A Roma, nel teatro che una trentina di anni fa aveva ricavato da un cortile tra i palazzi di via Appia, a due passi dall’Alberone, è tornato Marcello Sambati. Al Furio Camillo, per tre giorni, l’artista salentino, ma romano d’adozione, ha proposto Dall’oscurità, un’opera compatta nel suo coniugare il piano visivo e immaginifico con quello sonoro e della parola poetica. Uno spettacolo magnetico e raffinatissimo che scorre su quella linea di confine fuggevole e – per nostra fortuna – non catalogabile in un genere, neppure quello dilatabile dell’arte performativa. Che sia allora un’installazione, abitata da un corpo scenico messo in gioco in maniera totale, con la sua struttura fisica allenata e dotata di una voce educata a vivificare la parola scritta. Questo, semplicemente, è teatro. Non ordinario e occasionale, certo, è uno dei migliori esiti dell’arte teatrale “contemporanea”.

Prima parte del trittico che ora ha un unico titolo, L’ospite inconsistente, Dall’oscurità, apriva nel 2002 le “Lezioni delle tenebre”, un viaggio tra luce e buio verso «la spoliazione dell’io […] lenta e dolorosa […] tra possesso e privazione». Un itinerario che, attraverso gli atti successivi, L’incompatibile, nel 2003, e Addio, nel 2005, «conduce alla rinuncia». E’ un percorso di sparizione – dice Marcello Sambati.
Lo abbiamo incontrato questo artista di frontiera, schivo e generoso, umile e sapiente nella cura di ogni particolare scenico e catalizzatore di risorse umane, quelle più vive e innovative.

Sei un creatore di luoghi per il teatro, a Roma hai costruito il Furio Camillo e poi, qualche anno fa, Campo Barbarico, ancora lungo la via Appia, a Tor Fiscale. Ora lavori a Tuscania e nel tuo spazio accogli prove di giovani artisti e laboratori. Cos’è questa tensione?
Ho sempre sentito un’assoluta coincidenza tra luogo e opera, una necessità spaziale di trovare il luogo adatto per costruire l’opera.

Prima di arrivare al presente, vogliamo ripercorrere queste tappe, sono trent’anni di teatro?
In realtà, il primo spazio a Roma è stato a San Lorenzo, in via dei Campani, nel 1980. Lì è nata Dark Camera (la compagnia di Sambati, ndr). Era molto piccolo, però, riuscivamo a organizzare delle rassegne, insieme a Beat 72. Dopo un paio d’anni ho trovato lo spazio che poi è diventato il Teatro Furio Camillo. Per metà era un cortile, con uno stanzone e con le cantine sotto. Qui, sono stato fino al 1998. L’ultima avventura romana è stata Campo Barbarico. Era uno spazio bellissimo che ha avuto molte difficoltà logistiche, anche con l’Ufficio Tecnico del IX Municipio. Non ho capito perché il teatro non dia piacere e, al contrario, sia stato così osteggiato. Abbiamo avuto problemi con la polizia, verbali… fino all’altro ieri ho pagato ancora contravvenzioni.

Lo avevate già ristrutturato; ricordo il nuovo pavimento in legno, per il tuo spettacolo Danze locuste (le poesie sono pubblicate dall’editore Manni, nel 2002)?
No, avevamo solo costruito una bellissima pedana, soprattutto per permettere prove di danza, era uno spazio adattissimo alla danza. L’idea era proprio quella di farne un centro stabile di danza. Ora è chiuso e stiamo vedendo come convertirlo. In parte lo avevamo comprato…

Gli Enti locali si erano interessati a Campo Barbarico? E, in particolare, il Municipio IX?
Avevamo presentato il progetto per la ristrutturazione alla Regione Lazio, che ce lo aveva accolto. Le risorse finanziarie erano nostre. Susi Fantino (la presidente del IX Municipio, ndr) – che tra l’altro è stata rieletta, senza andare al ballottaggio – era molto entusiasta all’idea di creare un teatro in una zona abusiva e degradata. Ma, forse, era troppo presto, adesso potremmo riprovarci.

Ora comunque è chiuso, qualcuno potrebbe occuparlo?
Se uno spazio viene occupato può agire, se viene acquistato no. Questa la dice lunga sulla burocrazia italiana e sulla rapidità con cui i progetti vengono realizzati. Forse dovrei occupare la mia stessa proprietà e lavorarci come occupante, è curioso. Non sono arrabbiato, sono molto deluso dalle Istituzioni.

Quando hai iniziato a lavorare a Tuscania?
Quando ci hanno assegnato la residenza regionale, nel 1998. La nascita della residenza ha coinciso con la cessione del Furio Camillo all’Archimandrita. Lavoravo con altre associazioni e quindi ho preso degli spazi. Ho investito molto, idealmente, su Tuscania, sperando di potermi radicare in quel territorio come associazione. Per i primi cinque anni abbiamo lavorato davvero bene, abbiamo fatto passare da Tuscania spettacoli importanti di quel periodo. Da Moni Ovadia a Falso Movimento a Enzo Moscato…

La residenza era nel Teatro Comunale?
Sì, mentre nel mio spazio si facevano laboratori, prove, incontri. Avevamo ristrutturato, insieme a Vera Stasi, anche il Super Cinema, dove nel primo anno si è svolta tutta l’attività. A Tuscania si è fatto un buon lavoro su tre-quattro spazi, che sono ancora lì e vanno valorizzati.

Da due anni è ricominciato il lavoro, che si era interrotto, a livello regionale, con la Giunta Storace? E con l’Ente Teatrale?
Su Tuscania è importante avere un sostegno anche da parte dell’Eti, ho sollecitato una collaborazione per la prosa, per il settore di ricerca. Perché l’Atcl (il circuito teatrale del Lazio, ndr) porta alcuni spettacoli che richiamano un certo tipo di pubblico, ma se a questi non associamo un percorso di ricerca e di innovazione, seminiamo nel vuoto, e non può esserci futuro. Invece, proprio su questo dobbiamo puntare. Tra l’altro, da dieci anni lavoro stabilmente con la Asl di Viterbo sul disagio. Si sono formati due gruppi di ragazzi disabili, abbiamo uno spettacolo che è stato portato anche a Firenze. E’ entrato nel primo progetto dell’Eti “Dissipario”, lo scorso anno. C’è un grosso interesse dell’area del disagio di convergere su Tuscania. Il secondo anno di “Dissipario” vorremmo proporlo nelle Officine Culturali della Regione. Per questo stiamo provando a mettere insieme le forze, Regione, Eti e Comune, che sembra sia molto interessato.

Sei un artista indipendente, che si pone sempre al margine, come ti rapporti alle Istituzioni?
Il problema con le Istituzioni è che un anno ti invitano e l’altro ti cacciano, un anno sono aperte e l’altro si richiudono, perché ci sono altre persone. Noi stiamo lavorando da decenni nel teatro di ricerca e siamo abituati all’indipendenza, a non avere pressioni sulla progettualità. Quando ci troviamo a dover mediare su queste cose, a volte, entriamo in conflitto. Quando si hanno altri interessi rispetto alla promozione culturale, la cosa cade automaticamente. Non c’è problema a proporre spettacoli commerciali di qualità, a veicolarli anche attraverso il nostro lavoro. Certo, non mi riferisco al sottobosco becero degli pseudo divi televisivi che fanno terra bruciata quando passano. Però, è importante sostenere sempre i percorsi delle nuove generazioni, della nuova drammaturgia, altrimenti non ha senso.

Tu sei un riferimento per le nuove generazioni, mantieni nel tempo un ruolo di pedagogo…
Cerco di essere attento alle nuove generazioni. A Tuscania si è formata una sensibilità al nuovo. Quello che succede qui è un riferimento anche per Viterbo, dove il Teatro dell’Unione, in restauro, è da sempre è un monumento al nulla, e il San Leonardo è uno spazio infelice, con un palcoscenico di quattro metri per quattro. Qualcosa si sta muovendo. A Vetralla hanno aperto uno spazio dedicato alla musica sperimentale, I cantieri musicali. E a Tessennano, dove il sindaco è una giovanissima ragazza, hanno approvato un progetto giovani per i comuni in via di estinzione – quelli che si stanno spopolando – attraverso il quale vorrei coinvolgere in uno spettacolo i suoi 400 abitanti.

Insomma, la prossima per te sarà una stagione intensa di lavoro nel territorio; a Tuscania sarai anche direttore artistico del Comunale?
Per la direzione artistica non è previsto un compenso, però spero di poter ospitare spettacoli che mi interessano. Per le Officine – se verrà accolto – il progetto sarà biennale e in collaborazione con le diverse associazioni culturali del territorio, le stesse che vorrei coinvolgere per il progetto con il Comune di Tuscania. E’ importante questo radicamento, altrimenti si rischia il rigetto. Poi, ci sono i laboratori… vengono insegnanti, direttori didattici, per un piacere auto educativo. Anche loro veicolano il pubblico.

E il tuo Trittico delle Tenebre girerà o hai altri lavori in cantiere?
Stiamo presentando un progetto al Teatro di Roma per il Teatro India, se non lo prendono metterò una fascetta sul libro, “rifiutato dal Teatro di Roma” (i testi del Trittico stanno per essere pubblicati da La camera verde, ndr). Mi piacerebbe fosse inserito nel percorso di spazi curato dall’Eti. Poi, ho appena finito di scrivere non una quarta tenebra, ma il prologo alle tenebre – invece di un sequel, ho fatto un pre-quel. E’ il luogo da dove nascono i tre testi, a tre anni dal completamento delle trilogia, e sarà uno spettacolo indipendente. E’una direzione di lavoro interessante, vado verso una luce precedente, una luce perduta. Questo mi incuriosisce. Ho sempre creduto molto al fatto che uno più invecchia e più va verso i territori della giovinezza, dell’infanzia, come richiamo. In questo prologo c’è il richiamo della gioventù, dell’età della luce, dell’infanzia. Lavorare sul prologo a posteriori, mi sta aprendo un territorio di scrittura molto stimolante. Arrivato a sessant’anni non posso fare progetti per il futuro, li faccio per il passato. Mi piace scrivere per il passato.

Maria Teresa Surianello (28/04/08)
 
leggi l’articolo nella sua pagina originale: http://www.differenza.org/articolo.asp?ID=210


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