Un laboratorio di Marcello Sambati tra poesia, università e teatro – di Samantha Marenzi

Il 28 aprile all’Aula Columbus, un grande spazio nel cuore del quartiere romano Garbatella, si è chiuso il laboratorio di arti dello spettacolo condotto da Marcello Sambati per gli studenti del Dams di Roma Tre. Un lavoro pratico tra riflessione e artigianato che offre l’occasione di guardare da un punto di vista privilegiato, ravvicinato e un po’ laterale, il fare di un uomo di teatro che ha tracciato sentieri importanti nella cultura italiana. Senza voler testimoniare l’evento singolo, raccogliamo alcuni indizi del suo lungo cammino seminati in questo laboratorio che si è chiuso con un ballo pieno di saltelli e sorrisi, di mani di studenti tese a invitare i professori seduti nella penombra. Tutti hanno accettato l’invito. Accade spesso che la conclusione dei laboratori teatrali sia un momento carico di emozione. Nelle sale dove si sperimenta, dove ci si espone senza esibirsi, dove si eseguono azioni che non rispondono a una funzione ma a una suggestione, si creano legami e rapporti che rispondono a una logica diversa da quella quotidiana. In qualche modo ci si apparenta. Si condivide un segreto, quasi senza saperlo. E accade che a poter osservare questa dimensione intima del lavoro teatrale si vedano finalmente gli strumenti, i saperi, quell’insieme di tecniche, estetiche, poetiche, che quando il teatro si mostra nella forma pubblica dello spettacolo spariscono dietro al risultato. Qui, nella zona dei processi, nel tempo dei prodotti non ancora (e forse mai) pronti, nel luogo dei materiali che vengono usati e scartati, nell’incertezza e anche nell’ingenuità dei partecipanti non professionisti, qui può capitare, da spettatori, di accedere a quel segreto.

Marcello Sambati ha una lunga storia nel teatro italiano. Ha partecipato alla sperimentazione degli anni settanta collaborando e creando gruppi, ha dato vita all’associazione Dark Camera nel 1980 aprendo un decennio importante, durante il quale ha fondato spazi diventando il punto di riferimento di diverse generazioni di teatranti e danzatori. Il Teatro Furio Camillo, a Roma, e poi I magazzini della lupa a Tuscania e ancora, diversi anni dopo, il Campo Barbarico, sempre nella capitale. Spazi tutti diversi, alcuni molto longevi, altri vivi solo per il tempo di indicare una via, un modo, una sensibilità del fare teatro, di fare i teatri. Perché Sambati è autore e uomo di teatro, è un performer e un maestro, ma soprattutto, e insieme a tutto, Sambati è poeta. E la poesia che nelle parole è suono e senso, è voce e canto, negli spazi è luce e odore, è silenzio e vuoto prima che un corpo la vesta e la faccia azione. È dagli anni novanta che, accanto all’organizzazione di eventi (che significa creazione di contesti, ambienti, collaborazioni tra scrittori, danzatori, artisti visivi e registi teatrali), nel fare teatro di Marcello Sambati prende uno spazio sempre maggiore l’attività pedagogica, il lavoro dei laboratori. È un’attività complessa, soprattutto per l’eterogeneità dei destinatari, dagli studenti delle scuole ai ragazzi disagiati, dai performer alle persone assistite da strutture socioriabilitative. Un “teatro indicibile”, dove brilla “l’oscuro splendore della diversità”. A marcare l’importanza dei progetti pedagogici è l’avventura della Scuola oscena a Catania (2017), dedicata alla scoperta del patrimonio artistico celato in ognuno, che permette di “orientarsi nella moltitudine dei linguaggi e delle forme espressive del teatro contemporaneo”.

Dall’inizio degli anni Duemila, Sambati pubblica le sue raccolte di poesie, e realizza la trilogia di Lezioni dalle Tenebre, coi tre spettacoli Dall’oscurità, L’Incompatibile, Addio, di cui è autore, regista e interprete. In questi spettacoli appaiono tutti gli elementi che formano il suo linguaggio scenico: il buio che ritma un susseguirsi di visioni e da cui i raggi luminosi cavano immagini del suo corpo magro in posa o in azione; le scene, lastre e tavole su cui il movimento diventa un’avventura delicata e rischiosa; la poesia detta, sussurrata, cantata, la sua poesia declamata che non è solo testo ma una vera danza della voce e della carne.

“Abbiate cura del silenzio”, dice Sambati agli studenti del Dams. Il silenzio che è lo spazio tra le parole, ed è il tempo tra un’immagine e l’altra. I ragazzi e le ragazze guardano lo spazio vuoto, nell’attesa e nell’indecisione di occuparlo, a turno, con le loro brevi improvvisazioni, con figure che danno forma a suggestioni come tre disperazioni, una preghiera, due clausure, tre danze aspre. Entrare in quel vuoto a svolgere la propria piccola azione è come entrare in un cerchio magico, che a forza di guardarlo tutti insieme, aspettando qualcuno che ne prenda il centro, si fa magnetico, elettrico, seducente e spaventoso. “Cerchiamo di capire che tempo è questa assenza di immagine”, e questo invito a non dover riempire i vuoti, a non dover giustificare i silenzi, a non lasciarsi sfuggire l’occasione di osservare il tempo, è il cuore e la potenza di un insegnamento che si fa magistero. La voce, la parola e la dimensione figurativa sono tre temi su cui gli studenti sono stati invitati a lavorare in diversi modi. Uno è quello della lingua immaginaria. Piccolissimi monologhi, o accenni di dialoghi, con parole inventate, a cui il fiato dà corpo. È un esercizio tra gli altri per mettersi in cerca di quello che Sambati chiama “il parlare della parola”, il “resuscitare la carne del parlare”, dove i significati stanno in chi ascolta e la parola si fa trasparente, e recupera l’ineffabilità. Ecco un altro tema che come una vena attraversa tutto il lavoro di Sambati, poetico, teatrale e pedagogico, l’ineffabilità, la ricerca degli strumenti per far apparire l’inesistente che è sempre sulla soglia di esistere, la capacità di sorprendere ciò che ancora non c’è, tutto lo sconfinato inesistente che è già dentro di noi, in procinto di manifestarsi, e che ci fa “corpo in attesa dell’ospite”. “Parla me, ascolta me, abita me. Danzami, poetami, agiscimi, muovimi”. Così il verbo diventa una finestra dell’essere e il libro dei verbi uno strumento che apre infinite possibilità. Ogni studente sceglie il suo verbo, lo dice alla forma riflessiva assumendosi la responsabilità della parola, e dell’azione che questa porta con sé, ma non fa la sua azione per mostrarla, lascia che il suo corpo la ospiti, scoprendo l’attesa e percependo quel qualcosa che attraverso di noi vuole manifestarsi, che è la vita, e che ci conquista. Anche il movimento, come la parola, esiste, nel teatro di Sambati, su quella soglia tra l’invisibile e il manifesto. “I grandi maestri” racconta agli studenti, “erano così bravi a disegnare nell’aria che riuscivano a rendere invisibile il gesto anche alla morte”. L’idea del movimento come l’atto di scrivere e disegnare nell’aria, di farsi geroglifico, la creazione di un gesto che crea una visione che dura un istante, è per Sambati il modo misterioso di sottrarsi all’interpretazione e al consumo. Ma è anche il paradosso di un’altra fuga, quella dalla dimensione effimera del gesto. “Scrivo nell’aria così nessuno può cancellare ciò che scrivo”, e l’apparizione fugace si fa epifania. “Questa è la leggenda dei maestri del mimo”, dice Sambati a conclusione di questo discorso che è un discorso sulla danza e sulle immagini, sul movimento e sulla figura, sull’azione e sulla visione. Un discorso vertiginoso sul confine tra il fare e il guardare, e nel quale sta il senso profondo del valore di un laboratorio. Fare e guardare. Entrare e uscire da quel luogo avventuroso che è lo spazio scenico, da cui si esce sempre un poco diversi da come si è entrati, ma solo se si fa per davvero, senza finzione. Entrare e uscire dallo sguardo dei compagni che non sono uguali al pubblico, perché un momento dopo prenderanno loro il posto del fare, e noi del guardare. Fare e guardare, che è il contrario di esibire e giudicare. Che è sentire, osservare, lasciare che una visione ci invada, e farci noi stessi visione. “Vedi me”, anche solo nello stare, nell’attendere che qualcosa accada. “Aspetta me”. E così si impara a vedere. Ad esempio a vedere la traccia leggera che lasciano i corpi nello spazio scenico, dopo che se ne allontanano. Ma bisogna guardare bene. Si impara a vedere un teatro che agisce sulla soglia tra la luce e l’oscurità. Perché così è il teatro di Marcello Sambati sotto molti aspetti. Un teatro che ha cercato di proteggere sé stesso e allo stesso tempo promuoversi ed esistere nel tessuto culturale italiano. Che ha conquistato la sua notorietà ma quasi nascondendosi. Che si è sottratto al consumo pur offrendosi allo sguardo e all’esperienza delle comunità più diverse, agendo dentro e fuori il circuito propriamente teatrale. Gli studenti del Dams insieme a Sambati hanno abitato il tempo del teatro fuori dallo spettacolo. Quel tempo che inizia quando in scena si fa buio e poi una luce fa apparire qualcosa. Quello che scorre parallelo al tempo quotidiano e sembra lasciare indietro la realtà, sempre più lontana, mentre lentamente entra nei suoi aspetti invisibili, nel suo respiro, e nel suo cuore.

Samantha Marenzi
samantha.marenzi@yahoo.it
S. Marenzi è dottore di ricerca in discipline dello spettacolo all’Università di Roma Tre

L’Indice – dei libri del mese – settembre 2017

Anno XXXIV n.9