UNA DISCESA NEL MAELSTROM IL TEATRO AURATICO DI MASSIMILIANO CIVICA

4/7/11
Al festival Inequilibrio di Castiglioncello va in scena “Attraverso il furore”, l’ultimo allestimento del regista romano (premio Ubu nel 2008): tre sermoni del mistico tedesco Meister Eckhart si confrontano con tre quadri contemporanei scritti da Armando Pirozzi. Provocando uno smagliante corto-circuito tra il passato e il presente, tra il vicino e il lontano (foto, courtesy Elisabetta Cosci/Armunia)

Attilio Scarpellini

Lunedi’ 4 Luglio 2011
La poesia nasce dall’incontro tra le due immagini più distanti tra loro (Pierre Révérdy)

Non appartengono alla stessa epoca, i personaggi e le parole di Attraverso il furore, lo spettacolo che Massimiliano Civica ha messo in scena in una sala del Castello Pasquini di Castiglioncello per l’ultima edizione del Festival Inequilibrio (la prima sotto la nuova direzione di Andrea Nanni). Ma si ritrovano nella stessa immagine, segnata da un lungo tavolo sormontato da una finestra ai cui estremi siedono rispettivamente, due giovani, un uomo e una donna, stretti sui due lati dell’angolo sinistro, e un uomo, seduto sul lato opposto davanti a un grande leggio. E’ una strana immagine, a un tempo simmetrica e spostata: il suo punto di fuga prospettico, infatti, coincide con la finestra, ma lo sguardo dello spettatore è costretto a sdoppiarsi tra la frontalità dei giovani e il profilo dell’uomo quasi scolpito sul suo leggio. La parola di quest’ultimo traversa il campo visivo lungo la linea del tavolo, è un fiume che separa lo spettatore dalla scena, un velo che ben presto la sospende, la avvolge, la impania, mentre le parole tra i due giovani quel velo lo incidono con il lancinante contrappunto di un dialogo al presente che, proprio per questo, non ha a sua volta nulla di storico. Come possono convivere la predicazione e il dialogo, i sermoni di Meister Eckart e il testo di un autore contemporaneo come Armando Pirozzi, una parola temprata nell’amore intellettuale per l’unicità impredicabile di Dio e un’altra così puntualmente creaturale dal risultare a tratti straziante per la trasparenza con cui distilla le lacrime invisibili che sfigurano il volto di ogni giorno (il volto comune dei nostri sentimenti)? Possono farlo, vien voglia di dire, nell’intimità che elude il fragore del mondo, là solcandolo – come gli apostoli a cui il Gesù di Eckhart ordina di salire su una barca per traversare il furore del mare – qui, lasciandosi traversare da esso fino all’estenuazione e all’afasia di una parola che affonda nel rumore e risale dal silenzio, quale è quella che, appunto, i quadri di Pirozzi distillano dal furore banale del linguaggio. Ma è solo il tratto più sensibile di una comunanza nata dal confronto tra un’intimità massima e un’intimità minima: salire sull’arco ieratico della parole soufflée di Marcello Sambati – raramente predicatore è apparso più credibile e fervidamente quieto di quello incarnato da questo tenebrolucente poeta della scena – o scendere negli scambi verbali, disperatamente vivi, tra Valentina Curatoli e Diego Sepe (che pure, per altri versi, fanno parlare due morti), è, come si intuisce, la stessa cosa. Eppure la messinscena di Civica non rende visibile una permeabilità, ma quell’incommensurabilità tra l’uomo e Dio che Soren Kierkegaard, dopo Eckhart, pretendeva assoluta: è perché la distanza tra l’uno e il molteplice (tra la quiete e il mutamento, tra l’essenza e l’esistenza, la declinazione è tendenzialmente inesauribile) è incolmabile che la vita sulla scena può rappresentarne il paradosso, il corto-circuito, la commedia. In caso diverso, Attraverso il furore, precipiterebbe nella tragedia o nel dramma sacro. E invece la freccia, per usare una vecchia immagine di George Steiner, punta verso l’alto ma vola contro vento: un’ironia di raffreddate ceneri pervade il suo andirivieni tra due registri inconciliabili che solo l’immagine teatrale riesce a tenere insieme in quell’economia del gesto e del dettaglio che fa trasumanare le scene immobili di Civica in brusche e inaspettate tempeste emotive. Se Farsa (uno dei precedenti spettacoli del regista romano presentato anni or sono proprio a Castiglioncello) era una ruvida e bergmaniana pittura su legno, Attraverso il furore è una leggenda animata su una vetrata medievale dove niente fuoriesce dai limiti del quadro ma dove, in compenso, ogni accensione del corpo e della voce folgora (e amplifica) una distanza abissale. Senza interrompere il suo discorso, Marcello Sambati rompe la fissità della sua postura liturgica e volge lo sguardo verso il pubblico che in quel momento – “Fate ora attenzione! San Paolo dice…” – si trasforma in uditorio. Dagli occhi sgranati di Valentina Curatoli, unico punto di colore (rosso fuoco) tra gli uomini in nero clergyman, dai suoi piedi nudi sotto il tavolo, trasale non si sa quale cinema muto, sospeso tra Dreyer e il Chaplin più struggente. Il pathos introverso di Diego Sepe potrebbe ricordare il giovane, sfuggente Trintignant (o forse il vecchio, con quel suo stare in scena a un tempo nervoso e rassegnato, come se volesse sempre uscirne nella vita alle spalle). Scandita e asciugata, la parola cade e si allarga in un cerchio di miraggi: l’illusione estrema prodotta da tanta lontananza è che l’immagine, a un certo punto, avanzi. Che, assediata dal silenzio, ogni voce reinventi un primo piano. Al terzo tempo, al terzo salmo, nessuno sa più esattamente dove si trovi, e quando Sambati, inflessibile e paterno, chiude gli occhi dei due giovani amanti, e gli attori si alzano ed escono in sequela, lo spettatore li riapre nell’aria smossa da una visione. Questo “ singolare intreccio di spazio e tempo” (“apparizione unica di una lontananza, per quanto questa possa essere vicina”) Walter Benjamin lo chiamava aura.

(lettera22)